Incontriamo il regista Nanni Garella il giorno dopo la prima dello spettacolo La classe, fedelmente ispirato al capolavoro di Tadeusz Kantor La classe morta, un’opera che ha segnato indelebilmente la storia del teatro del Novecento. Nella serata d’esordio al Napoli Teatro Festival 2013 lo spettacolo – messo in scena dalla compagnia emiliana di Arte e Salute, che si occupa di teatro e riabilitazione psichiatrica – è stato salutato da un lungo e fragoroso applauso.
Come mai ha scelto proprio Kantor e la sua opera più visionaria?
Mi avevano proposto un lavoro sulla strage di Ustica. Occupandomi della morte mi è venuto da rileggere il bel libro di Marinelli su Kantor e La classe morta; e ho pensato subito che era un testo molto adatto alla nostra compagnia, perché questi attori hanno con la loro infanzia – la mossa di partenza di questo spettacolo – un rapporto molto particolare: per loro l’infanzia è un periodo mitico, che la malattia ha separato dal resto dell’ esistenza. Non solo quella psichiatrica, ma ogni tipo di malattia può provocare una cesura nella vita, fra come avrebbe potuto essere e come invece è stata. Questo rapporto con le stagioni della vita spiazza continuamente, crea continue occasioni di riflessione e muove negli attori delle emozioni in più.
La sua messa in scena rispetta accuratamente l’allestimento originario.
La proposta scenica è abbastanza fedele al lavoro di Kantor, nelle motivazioni profonde e – spero – nelle motivazioni poetiche e visionarie. Kantor propone una forma legata all’arte figurativa: quadri che si mettono in movimento e che ritornano sempre alla stessa immagine di adulti rientrati nei banchi di scuola, che da lì lasciano partire ricordi, su come avrebbe potuto essere la vita, com’è stata, su come sarà l’ultima stagione.
Lei lavora da molto con questo gruppo?
Sì. La compagnia Arte e Salute opera stabilmente dal 2001, dopo un percorso di due anni di formazione. Nasce dall’idea di utilizzare il teatro non soltanto come strumento di arte-terapia, ma anche per dare un’immediata capacità professionale ad alcune persone sofferenti, e dunque opportunità di lavoro reali ed effettive. Questo percorso non è stato facile: un lavoro lungo e abbastanza complesso, e all’inizio non sapevamo neppure se saremmo riusciti nell’obiettivo.
Che esperienze avete realizzato finora?
Il progetto ha dato subito dei risultati positivi: già nel 2003 abbiamo realizzato la prima tournée con I giganti della montagna, e da allora una dozzina di allestimenti. A Bologna i nostri ragazzi recitano all’Arena del Sole con la quale Arte e Salute ha una convenzione di residenza. L’Arena è il maggiore teatro della città: a Bologna i ragazzi sono entrati dalla porta principale, e di questo siamo molto contenti.
La vostra è una realtà abbastanza singolare.
Quando facciamo progetti europei e cerchiamo partner a volte abbiamo difficoltà a trovare gruppi simili al nostro con una dimensione professionale.
Vi capita di mescolarvi con altre compagnie?
Nell’allestimento della Classe lavorano tutti attori di Arte e Salute; in più, questa volta, c’è in scena anche il mio assistente Nicola Berti. Ma è un’eccezione: di solito noi lavoriamo in compagnie miste, con attori esterni. Questo permette ai nostri di migliorare l’apprendimento tecnico, ma è utile anche agli attori che vengono a lavorare con noi: lo scambio di esperienze è molto fecondo.
Cosa ha portato Arte e Salute nella vita dei suoi attori?
Con quest’esperienza lavorativa i nostri ragazzi hanno riconquistato una centralità per sé stessi e per le loro famiglie. Ma quello che fa bene non è tanto il teatro, che pure è una cosa bellissima perché si fa in gruppo, c’è il pubblico, c’è il successo. È il lavoro quel che ridà loro la responsabilità e la centralità anche economica della loro vita. Ricominciano dei cammini che avevano sospeso: la malattia è una cesura che più o meno nell’età dell’adolescenza interviene su vite già avviate, su percorsi di vita che vengono interrotti.
Torniamo alla messa in scena. Ho avuto l’impressione che rispetto a Kantor questa vostra scrittura sia meno crudele.
Ed è vero: infatti non partiamo da quel teatro della crudeltà che contiene, se vuole, una riflessione un po’ “espressionistica” sulla morte. Questa è una riflessione più concreta, che nasce dalla diversità dei personaggi; è quello che fa la differenza. I personaggi sono un po’ pasoliniani, vengono da una realtà diversa da quella degli altri. Gli attori di Arte e Salute hanno dentro di sé qualcosa che li fa stare a loro agio in alcuni tipi di personaggio: per esempio Pinter o Pirandello.
Come riceve oggi lo spettatore questa partitura scenica concepita a metà degli anni Settanta?
La forma teatrale della Classe morta parte dal meglio dell’arte figurativa del Novecento, dalle esperienze più importanti – di cui Kantor era parte essenziale – e anche dalle suggestioni dal grande teatro d’avanguardia di quegli anni; penso a Grotowski, ma anche alla drammaturgia di Beckett. Si tratta quindi di un teatro consegnato alla classicità, è un po’ come mettere in scena Pirandello. Io l'ho trattato come un classico. Anche se poi, essendo una scrittura scenica, e non semplicemente un testo, va dovutamente interpretato e fatto proprio. Noi abbiamo fatto un lavoro di riscrittura soprattutto sui personaggi.
Secondo lei che funzione ha oggi il teatro, a chi parla e cosa racconta?
Il teatro dovrebbe dare grandi emozioni, cercare di restituire un rapporto con la vita per quello che è, come diceva Cechov. Non rappresentare quello che è vero, o che è verosimile, o realistico; ma rappresentare la vita com’è. Bisognerebbe che il teatro fosse disposto – soprattutto in Occidente – ad allargare i propri orizzonti. In Occidente mancano drammaturgie nuove che diano grande linfa alla rappresentabilità della vita contemporanea, e spesso si deve fare ricordo alla grande letteratura del passato.
Che direzione deve prendere il teatro per mantenersi vivo?
Deve aprirsi a sguardi diversi, a ciò che sta ai margini della civiltà occidentale di oggi, fuori dai circuiti della cultura con la ‘c’ maiuscola, o dai teatri così come siamo abituati a vederli, che sono un po’ dei fortilizi dove ci asserragliamo per confermare le nostre certezze, un po’ come al circolo del tennis. Ecco, i teatri tendono a museificarsi un po’: soprattutto quando non c’è molto da dire, si tende a rinserrarsi. E invece bisogna avere il coraggio di aprire, di fare entrare un po’ d’aria fresca, di vedere dove sono le trincee nuove, la gente che lotta nelle periferie, queste periferie di città sterminate dove ci sono persone che non hanno nessun rapporto con la cultura, che sono emarginate. Il teatro bisogna che si apra a questo, se vuol raccontare la vita.
Le viene in mente qualche esperienza significativa a questo riguardo?
Penso al teatro in carcere, o agli esperimenti di quei teatri sparsi nel territorio che cercano disperatamente di affermare nuovi principi vitali; anche se, soprattutto in Italia, in questo momento è difficile. Purtroppo i giovani non hanno molta possibilità di trovare spazio. I teatri pubblici – che hanno un po’ dimenticato la loro vocazione – dovrebbero produrre un teatro d’arte per tutti, come diceva Strehler, o almeno per il maggior numero di persone. Bisogna avere più coraggio.
Lo scriveva anche Roland Barthes negli anni ’50 a proposito della Francia.
Il teatro negli ultimi cinquant’anni ha avuto molta innovazione tecnica; ma se parliamo di pubblico rispetto a quei tempi ha fatto un passo indietro. Il rischio che si restringa la base di pubblico è notevole. E il fatto che aumenti il numero di spettatori non è consolante: è la qualità del pubblico che deve cambiare. I giovani devono andare a teatro.